VANIA
"Tutti, finché siamo giovani, cinguettiamo come passeri sopra un mucchio di letame. A vent’anni possiamo tutto, ci buttiamo in qualsiasi impresa. E verso i trenta siamo già stanchi, è come dopo una sbornia. A quarant’anni poi siamo già vecchi e pensiamo alla morte. Ma che razza di eroi siamo? Io vorrei solo dire alla gente, in tutta onestà, guardate come vivete male, in che maniera noiosa. E se lo comprenderanno inventeranno sicuramente una vita diversa, una vita migliore, una vita che io non so immaginare.”
Così scriveva Anton Cechov in una delle sue lettere. Ed è proprio dalla stessa pervasiva sensazione di stagnamento ed immobilismo che è nata la necessità di questo lavoro. Poco più che trentenni quando abbiamo iniziato a lavorare su questo testo, ora quarantenni, ci sentivamo e continuiamo a sentirci bloccati in un limbo poco rassicurante. E, come noi, tutta la nostra generazione ci sembra vivere il presente con un sentimento di impotenza. Ci aggrappiamo al passato per non lasciarci dominare, guardiamo al futuro con poche speranze.
Così abbiamo deciso di raccontare le paure, il senso di vuoto, la difficoltà di sognare dei nostri tempi, attraverso una drammaturgia originale costruita a partire dai temi e dai personaggi principali del testo del grande autore russo.
La vicenda si svolge in un paesino di provincia e ruota attorno alla figura del Professore, tenuto in vita da un respiratore artificiale. Non vedremo mai il Professore, ma le conseguenze che la sua condizione produce sul resto della “famiglia”: la giovane moglie Elena, il fratello Ivan, la figlia Sonia, il Dottore. Come in Zio Vanja anche i nostri personaggi sentono di non vivere la vita che vorrebbero. Ma la spinta verso il cambiamento deve fare i conti con la paura di invecchiare, le rigidità, i sensi di colpa, il timore di non essere all’altezza dei propri desideri.